🚨🪖🇮🇱 Negli ultimi anni ho raccontato molte guerre. E visto di conseguenza, coi miei occhi, immagini dell’orrore che per scelta ho spesso deciso di risparmiarvi. Eppure poche cose mi hanno colpito più delle parole di Rom Braslavski, ostaggio israeliano liberato dopo due anni di inferno a Gaza. Così la premessa è d’obbligo: quelle che state per leggere sono dichiarazioni in grado di urtare la vostra sensibilità. Non lasciatevi ingannare dal fatto che siano “soltanto” parole. Rom ha raccontato per filo e per segno la sua prigionia: dal tentativo di fermare i terroristi di Hamas in azione il 7 ottobre al Nova Festival, dove si trovava in qualità di addetto alla sicurezza, alla sua cattura e alla sua prigionia. Vi basti questo: ero tentato di non riportare questa intervista. Si trattava di ricostruire dall’ebraico, parola per parola, un lungo racconto trasmesso al pubblico israeliano integralmente soltanto ieri sera per la prima volta, e di cui i media internazionali hanno ripreso soltanto alcuni estratti. Insomma, un lavoro enorme, ma soprattutto un contenuto troppo “crudo“, violento, non alla portata di tutti i lettori. Allora perché state leggendo questa introduzione? Perché a un certo punto ho sentito dire a Rom Braslavski che “è un dovere che tutto il mondo sappia, che conosca almeno una briciola, per capire cos’è un incubo”. Ecco, questo pezzo non raggiungerà certo “il mondo”, ma almeno mi farà sentire con la coscienza a posto. Forse - magari, lo spero - qualcuno dopo aver letto questo pezzo aprirà finalmente gli occhi. E capirà che Hamas, la Jihad Islamica - il gruppo che ha tenuto prigioniero Rom - non sono “la Resistenza”, ma semplicemente il Male. E ancora: che non c’è modo di mettere i terroristi e Israele sullo stesso piano. È una grossa bugia, la menzogna di chi vorrebbe riscrivere la Storia. Non vi auguro “buona lettura”, sarebbe inutile e stonato. Vi invito soltanto a leggere, attentamente, fino in fondo. Sarà una lunga lettura? Sì, ma almeno saprete cos’è accaduto davvero a Gaza in questi due anni. Nelle prossime righe farò in modo che a parlare sia solo Rom Braslavski, fatta eccezione per alcune note di contesto.
“Non avevo mai visto un cadavere in vita mia. Mai. E vedo due ragazze accasciate sul pavimento. Ero convinto che fossero manichini di plastica. Le vedevi vestite con abiti da festival, abiti tipici del Nova, e accanto a loro una pozza di sangue. E io dico a una di loro, come se fosse una persona viva: “Va tutto bene?”. Parlo con un cadavere. Mi sentivo impazzire. Mi dicevo: “Senti, è come un film, cosa farebbe l’uomo del film?”. Così ho combattuto con chi mi aveva catturato. Ho deciso di saltargli addosso a pugni chiusi, con tutta la forza che avevo. L’ho spinto con tutte le mie forze, a sorpresa. Lui è rimasto scioccato. Ho approfittato dell’occasione. Ho corso come non avevo mai corso in vita mia. Ero sfinito. Il mio corpo non riusciva più a muoversi, e correvo contro il corpo, contro la stanchezza. Ma vedo che sto correndo verso la recinzione. Il recinto è davanti a me, forse mi separano sessanta metri. E mi dico: “Dannazione, dove sto correndo?” A sinistra ci sono terroristi, a destra ci sono terroristi, dietro di me c’è lui. Se continuo, arrivo solo al recinto. Ho visto una specie di fossato, con un po’ di vegetazione. Ho pregato “Shema Israel, Shema Israel, Shema Israel…”, ascolta Israele, ascolta Israele. Arriva il tipo su cui mi ero avventato e mi guarda con quello sguardo. Lo sguardo di chi mi riconosce. Si tocca la barba, annuisce. Poi arriva, mi spacca il naso a pugni. Mi esce sangue dappertutto. Mi ha rotto il naso. Mi hanno caricato in macchina e siamo partiti. Abbiamo iniziato il nostro viaggio verso Gaza”.
L’episodio della pasta
“Mi hanno portato in una casa improvvisata, come un pollaio. Mi hanno legato all’armadio. Legato, per ventiquattro ore al giorno. Dopo dieci giorni avevo fame, una fame tremenda. E mi sono detto: non mi importa più di niente. Farò quello che serve per sopravvivere. Avevo imparato da un amico colono, che era stato arrestato, un metodo per liberarsi dalle manette. Mi sono liberato, ho cominciato a muovere il corpo, a muovere le gambe. Morivo di paura. Pensavo: magari torna all’improvviso, magari ha dimenticato qualcosa e rientra. Dopo alcuni giorni in cui già uscivo e rientravo, ho rovesciato tutta la casa cercando un telefono. Ho frugato ovunque. Ma - perdona l’espressione - mi tremavano le palle. Ho rimesso tutto a posto in fretta, mi sono riagganciato le manette. E per fortuna, proprio in quel momento, lui era in bagno a lavarsi le mani. Sono andato avanti così per un’altra settimana. Mi sono detto: se arrivo al ventunesimo giorno, farò una missione suicida. Mi sono detto: preparo della pasta. Ho acceso il gas, messo l’acqua, guardato il cielo. Ho detto: “Almeno respiro un po’ d’aria prima che magari mi prendano o muoia”. Ho scaldato l’acqua, poi è finito il gas. Mi sono detto: “Anche se devo accendere un fuoco, lo accendo. Farò quello che serve per mangiare come un essere umano”. Sentivo che il corpo non aveva più nulla, nessuna forza. Ho preso i vestiti dei suoi figli e dei libri, sono andato in bagno e ho cominciato a bruciarli. Ho fatto un piccolo fuoco. A quel punto, il fumo comincia a uscire dalle fessure della casa di Gaza. Decine di abitanti si radunano attorno, poi entrano e trovano l’ostaggio israeliano da solo. Hanno iniziato a bussare alla porta, tutti insieme, e io dico “caz*o, sono solo, mi prenderanno”. Bussano anche alle finestre, io li vedo da un metro di distanza, e dico “ca*zo, mi hanno preso! Dio, Dio, mi hanno preso!” Mi sono buttato sotto il letto, ho tirato la coperta sopra per non far vedere le gambe. Sono entrati. Mi hanno tirato fuori da sotto il letto. Mi hanno massacrato di botte. Mi hanno picchiato a sangue. Per un’ora intera, pugni, calci in faccia. Uno ha preso una penna e me l’ha conficcata in testa. Per due settimane non riuscivo più a camminare o stare in piedi. Ma poco prima che la folla di Gaza mi uccidesse a sangue freddo, l’uomo incaricato di sorvegliarmi è tornato a casa e ha disperso la gente. E io vedo quella pentola di pasta proprio davanti ai miei occhi. Mi dico: “Va bene, ormai mi hanno picchiato, mi hanno preso. Chissà che cosa mi faranno adesso. Almeno mangerò la pasta”. L’ho afferrata con le mani, come un cane. L’ho presa, ho cominciato a ingozzarmi, ingozzarmi e ingozzarmi, poi sono tornato al mio posto, sul materasso. E da lì la storia è diventata ancora più nera”.
La tortura del cibo
“Mio padre ha un po’ di problemi di salute, non gravi. È un po’ anziano. E loro mi dicevano: “Abbiamo seppellito tuo padre. Tuo padre non ce l’ha fatta”. L’ho visto alla televisione israeliana, dicevano che l’avevano seppellito. E poi dicevano: “Magari anche tuo fratellino e tua madre, ma è quello che vuoi, no? Andare in paradiso. Voi ebrei dite sempre che andrete in paradiso”. Io piangevo. Una volta ho perso il controllo. Ho preso una tazza di tè - non di vetro, una tazza normale - e mi sono detto: “Al diavolo tutto, al diavolo tutto”. Ero arrabbiato, mi avevano lasciato senza cibo proprio in quel momento. Ricordo che volevo alzarmi a prendere dell’acqua, e lui mi dice: “Siediti! Non ti alzare! Non muoverti adesso”. Allora ho preso la tazza di tè, me la sono spaccata sulla testa. Non si è rotta. L’ho colpita due volte, e alla fine l’ho rotta sulla mia testa. Dalla frustrazione, dalla rabbia, dalla tensione. Non riesci più a mantenerti lucido. Mi usciva sangue in quantità enorme. Ho perso un po’ conoscenza. Mi sono detto: “Sì, è una tazza robusta, forse questa mi ucciderà, perché in ospedale non mi porteranno”. Volevo che il sangue continuasse a uscire finché non sarei morto. Sai, pugnalarsi fa paura, tagliarsi le vene fa paura. La tazza di tè mi sembrava il modo più semplice e veloce. Loro sono riusciti a salvarmi, a stabilizzarmi. E io ero deluso. Gli ho detto: “Perché? Perché mi aiuti? Perché? Lasciami. Lasciami. Perché? Perché l’hai fatto?” Non è passato sotto silenzio. Il giorno dopo, per tre giorni, hanno deciso che dovevo ricevere una punizione per quello che avevo fatto, e mi hanno torturato. Torture leggere, non gravi - ma non mi davano da mangiare. Mi hanno picchiato un po’ perché mi ero spaccato la tazza in testa. Mi hanno detto: “Non berrai più tè, né niente di caldo”. E così è stato. Hanno smesso di portarmi il tè. Poi sono entrati a Gaza centinaia di camion di aiuti. I jihadisti erano felicissimi. Finalmente ricevevano aiuti umanitari. Hanno cominciato a mangiare, a bere tè, a ricevere carne e cibo in abbondanza - roba da ristorante. Erano felici del loro cibo. Felici. Uno si è comprato una tenda, un altro della plastica per coprirla, un altro tessuti, un altro scarpe. Li vedevi contenti. E io, la mia vita non cambiava. Aiuti o non aiuti, la mia vita era la stessa. Sporco, senza lavarmi, senza mangiare. Che figli di put*ana. Entrano tonnellate di cibo e tu mi lasci morire di fame. Perché? Perché mi lasci morire di fame? Mi dà un chilo di farina e mi dice: “Quattro shekel”. Gli dico: “Va bene, dammelo.” Mi risponde: “No, no, no, no, non è per te. È per noi. Tu stai zitto”. Senti l’odore della carne, del caffè, del tè. Mi ricordo l’odore del tè: ha un profumo dolce. Sanno fare il tè. Senti tutti questi odori - e il loro cibo, quel piatto che chiamano riso con latte, qualcosa di buono, profuma come zucchero cotto nel latte. E lo senti, e lo stomaco ti si rivolta. E poi, proprio allora, è apparsa una piccola luce nell’oscurità: un altro ostaggio israeliano, anche lui tenuto prigioniero dal Jihad islamico”.
“Quel topo mi faceva impazzire”.
Rom parla di Sasha Troufanov: “Dalla mattina fino a notte inoltrata parlavamo. Mi raccontava storie assurde. Era ferito alle gambe. Lui raccontava, io raccontavo. Un delirio. E sai? Mi sentivo felice. Seduto con lui, parlavamo in ebraico, un israeliano come me, di un kibbutz. Mi ricordo che c’era un topo enorme nella stanza che mi faceva impazzire. Avevo più paura che quel topo mi corresse sulla testa che di prendere un missile. Ricordo di aver detto a Sasha: “Fratello, non ti dà fastidio questo topo? Non hai paura che ti tocchi? Non ti fa schifo?” E lui mi diceva: “Ah, sciocchezze, mi sono abituato.” Dopo quarantotto ore dolci con Sasha, la realtà è tornata a colpirmi in pieno volto”. È il momento in cui l’esercito israeliano entra a Rafah. I miliziani della Jihad islamica separano i due ostaggi: “Ero sicuro che ci avrebbero trasferiti insieme, che sarei rimasto con lui. Era il mio punto d’appoggio. Era più grande di me. Mi sentivo a mio agio con lui, a condividere il dolore. In quei due giorni…sì, solo due giorni. Ma mi ero legato molto. Fa male, fa paura. Non ho appoggi, sono solo. Sono stanco mentalmente. Non mi vedo più uscire vivo da Gaza”. Rom ancora non lo sa, ma è in quel momento che le porte dell’inferno stanno per aprirsi davvero: da lì in avanti, tutto sarà molto peggio, anche rispetto a ciò che ha già vissuto.
Il no all’Islam e le pietre nelle orecchie
“Sentivo i jihadisti parlare di parenti morti, sempre più familiari uccisi. E poi mi sono rifiutato di convertirmi all’Islam. Uno di loro mi diceva: “Senti, se ti converti, ti porto tanto cibo. Vivrai con noi. Nessuno ti toccherà. Vieni, abbraccia la vera fede, l’Islam, Maometto”. Ma nella mia testa sapevo che non sarebbe mai successo. Gli ho detto: “Sono nato ebreo, morirò ebreo”, Anche qui, quella decisione - e solo Dio sa da dove ho preso la forza - di non arrendermi, non piegarmi, non muovermi, ha avuto un prezzo terribile. Da lì la storia è diventata ancora peggiore. L’uomo è arrivato con un biglietto. Mi dice: “Senti, qui c’è scritto di bendarti gli occhi”. Gli dico: “Va bene, perché?”. Mi risponde: “Sono le istruzioni che ho ricevuto dall’alto”. Mi lega gli occhi. Passa un giorno, poi due, tre…e toglie una benda, con un sorriso. Mi dice: “Bene”. Mi lega di nuovo. Passano i giorni. Dice: “Sono passati due giorni”. Un altro carceriere. E io gli credo, che siano ordini dall’alto. Mi dice: “Nove giorni con gli occhi bendati. E ora i tuoi orari per il bagno saranno tre al giorno: alle nove del mattino, alle quattro del pomeriggio e alle nove di sera”. Un incubo. Dovevo trattenere l’urina per ore. Un incubo. E mi riduce anche la bevanda a mezzo litro al giorno. Prima avevo un litro. Ora mezzo. Lui voleva assicurarsi che fosse buio completo. Mi chiede: “Vedi la luce, un po’ di luce?” Gli rispondo in arabo: “C’è un po’ di luce, ma non vedo”. Lui dice: “No. Non deve esserci luce.” Non voleva che ci fosse nemmeno un filo di luce. Voleva che avessi solo nero davanti agli occhi. Ha deciso di mettermi un’altra benda: una maglietta, e sopra un’altra maglietta. E poi mi ha coperto anche le orecchie. È entrato con due pietre. Era felice, sorrideva. Mi dice: “Guarda cosa ti ho portato, le ho cercate apposta per te”. Mi infila le pietre nelle orecchie. Non entrano bene. Allora prende un chiodo e spinge dentro le pietre con il chiodo, più a fondo possibile. Io urlo: “Aahhh!” Ma lui non si muove, continua a spingere dentro. Poi passa all’altro orecchio e fa lo stesso. E la cosa peggiore è che le lascia lì. Non le toglie. E poi stringe di nuovo la benda sugli occhi. Mi lega una maglietta, poi un’altra, e stringe quanto più può. Mi preme qui, non mi scorre più il sangue alla testa. Le pietre dentro. Le senti. Ah, senti i battiti. Tump, tump, tump. Ti chiedi: “Cos’è? È il cuore? Cos’è questo battito?” Cerco di sentire il polso, di capire. Sento toc, toc, toc. Battiti. Il cervello pulsa. Senti il sangue, il dolore. Dolori come mai nella vita. Mai. È un dolore che non si può descrivere. E lui ti lega, ancora più stretto. Muovi la testa e senti il dolore dentro. E cominci a sentire anche i suoni ovattati. Mi sono detto: “Va bene, Rom, calmati. Non ti stanno ancora tagliando a pezzi. Va tutto bene”.
“Ma Dio ti vede”
“Ero esausto mentalmente, senza cibo. Anche la pita al giorno, quella che prima bastava, non c’era più. Volevo solo urinare tutto il giorno. Non vedevo, non sentivo bene, con dolori così. Dopo alcuni giorni, dopo una settimana - ormai tre settimane con la benda sugli occhi, senza bagno, con le pietre dentro le orecchie, dentro il cervello - arriva un tipo, a mezzogiorno, e mi dice: “Abu Salem, ecco…un messaggio.” Gli dico: “Cosa c’è scritto?”. Mi risponde: “Tu sei Abu Salem”. Mi mostra il biglietto: “C’è scritto di legare Abu Salem e torturarlo per Dio”. Lo guardo e gli dico: “Davvero? Sei serio? Stai scherzando?”. Non stava scherzando. E lui accenna un sorriso e dice: "No, no, non viene da me, è un ordine del generale. Che posso farci? Io sono solo un soldato". E non fa nulla. Non mi lega, non mi tocca. Penso: "Va bene, forse mi lascerà stare. Dio mio, che fortuna, che sollievo". Ma poi arrivano le nove di sera. Entrano con torce e fascette. Mi immobilizzano gambe e braccia. Mi spingono a terra. All’inizio sono pugni, poi avevano una frusta, quella con cui picchiano gli asini. È un dolore che non è umano, come una sferzata di ferro. L’ho guardata da vicino: dentro c’erano pezzi di metallo ricoperti di pelle. Poi hanno cominciato a colpirmi piano, giusto qualche pugno, qualche schiaffo, qualche colpo di frusta. Mi dico: "Ok, va bene, mi hanno legato, mi hanno torturato, è finita". Alle due di notte mi svegliano e mi danno le botte della mia vita. Mai preso colpi così. Mi mettono contro il muro. Uno mi tiene la testa e l’altro mi prende a pugni, pugno dopo pugno, senza fermarsi. Cerco di perdere conoscenza, ma non me lo permettono: ti tengono in piedi, sveglio. Dopo i pugni arrivano i colpi con quella frusta di ferro. Ogni colpo brucia, brucia come fuoco. Ho ancora oggi le cicatrici. Non se ne sono mai andate. Erano in tre: uno con la frusta e due con i bastoni. Alla fine ero distrutto, sanguinavo, mi facevano male tutte le ossa. Pesavo cinquantatré chili. Mi sono detto: "Ok, mi hanno torturato, è finita". Ero persino felice. Mi hanno detto: "Vai a dormire". Sono andato a dormire. Ma alle sei del mattino tornano, con le torce. "Yalla, yalla, yalla!". Entrano con due radio, accendono musica araba, gridano "Allah u Akbar, Allah u Akbar! Che bella giornata! Che felicità!". Mi svegliano, e ricomincia tutto. Stesse botte, stesso posto. Pugni, bastoni. Non erano uomini piccoli. Erano grossi, ogni mano grande come una pala. Ancora un giro di botte. Gli chiedo: "Perché?". Risponde: "Così, perché mi va". Lo stesso che mi interrogava. Poi un altro giro. Mi dico: "Non può continuare, basta". Ma a mezzogiorno tornano di nuovo. "Yalla, musica, festa!". Mi dicono: "Danza con le mani, balla e ridi". Io cerco di muovere la mano, ma fa male, un dolore nelle ossa. Era già il secondo ciclo di botte. Mettono le radio, musica, e di nuovo botte, botte. Capisci che sei dentro un ciclo, un inferno. E inizi a dubitare che uscirai vivo. Ti picchiano con tutto quello che hanno. Una radio me l’hanno spaccata in testa. Un bastone grosso si è rotto addosso a me. Persino la frusta di ferro si è piegata a forza di colpire. Mi dicono: "Sdraiati". Uno si siede sulle mie gambe, sulle ginocchia, e l’altro mi colpisce le piante dei piedi, colpo dopo colpo, forse quaranta di fila. Tutto il piede gonfio, rosso e blu. Poi mi dice: "Alzati, stai in piedi sulle piante dei piedi". È come se ti bruciassero. E così questa tortura continua giorno dopo giorno, ora dopo ora. E va solo peggiorando, sempre più giù. Mi picchiano sette volte al giorno, ogni volta per circa venti minuti. Ricordo quell’uomo, dicevano che era il nuovo comandante. Pesava almeno cento chili. Io ero ridotto a cinquanta. Ricordo che si metteva in piedi sul mio collo, sulla testa, mi saltava sulla schiena, e io pesavo cinquanta chili. Sentivo qualcosa spezzarsi, sentivo proprio che si rompeva qualcosa. Una sofferenza fisica inimmaginabile. Non riuscivo a camminare, ad andare in bagno. Quando è stato diffuso quel video in cui si vede che urlo "Portatemi da mangiare", in realtà stavo gridando "Aiutatemi, mi stanno torturando". Era proprio quel periodo. Anche il cibo e l’acqua…all’inizio mi davano un po’, poi più niente. Tre chicchi di falafel, era quello che mangiavo in un giorno. E ogni volta che vedo quel video su Facebook lo faccio scorrere, perché so che lì ho mentito con tutte le mie forze. Tra una ripresa e l’altra dicevano "Stop!", e uno mi dava un pugno: "Sii più serio, parla di Netanyahu, insulta Bibi, insulta Ben Gvir". Mi diceva: "Vuoi che ti tenga io le pietre e la benda sugli occhi?". "No, no, no". "Piangi". Poi metteva quella canzone in arabo che suonavano mentre mi picchiavano, e subito mi saliva l’angoscia, la paura. Ho pensato: "Ecco, ricomincia tutto, torneranno a massacrarmi". E ho cominciato a piangere. Ma non di fame. Era dolore puro, fisico. Mi faceva male tutto il corpo. Gli dissi: "Quel falafel che mi dai al giorno, prendilo. Lasciami morire di fame, ma smetti di picchiarmi". Volevo solo che smettesse di colpirmi. Il pianto non era per la fame. Era per il dolore nelle ossa. Gli dissi: "Io non piango per la fame. Piango per voi, per quello che mi state facendo". E poi gli dissi una frase, e dopo averla detta mi riempirono di botte, ma dovevo dirla. Gli dissi: "Forse pensi che qui ci siamo solo io e te. Che nessuno ci vede. Ma Dio ci vede. Lui vede come tu mi torturi e come io soffro per mano tua". Gli dissi: "Non passeranno cinque chili, Dio ti spaccherà in due. Aspetta la risposta di Dio e vedrai cosa ti succede". Si arrabbiò. "Mi insegni tu chi è Dio? Io ho 10 volte più fede di te! Ridammi le pietre e la benda". E la tortura riprese da capo. Dicono che mi abbiano torturato perché Ben Gvir provoca in prigione. Non è vero. Mi hanno torturato per una sola ragione: perché sono ebreo. È per questo che ho subito tutto quello che ho subito. Non per Ben Gvir, non per Netanyahu, per niente altro. Mi hanno torturato perché sono ebreo.
Il mio sogno
“Poi hanno deciso di peggiorare ancora. Mi hanno spogliato completamente, da ogni lato, anche le mutande. Mi hanno legato nudo, senza nulla addosso. Ero esausto, morivo di fame. Pregavo Dio: salvami, tirami fuori da qui. Dicevo dentro di me: "Mi sto spezzando". E intanto continuavano a colpirmi con la frusta. Ero a pezzi, anche nella mente. Non ce la facevo più. Era già quasi il terzo mese che durava tutto questo. Giorno dopo giorno, il corpo crollava. Non avevo più forze. Non mangiavo più. Non trovavo salvezza. Quella è stata la fase in cui lo spirito si è spezzato. Ho smesso di pregare. Non trovavo più la forza. Niente Shema Israel, niente. Non avevo più energia, né mentale né fisica. Era violenza pura. Lo scopo era umiliarmi. L’obiettivo era schiacciarmi la dignità. E questo è esattamente ciò che hanno fatto. È difficile per me parlarne. Questo pezzo, in particolare, non mi piace parlarne. È difficile. Era così ogni giorno: ogni colpo, ogni giorno, dicevi: ‘Ho finito un altro giorno all’inferno. Domani mattina mi sveglierò per un altro inferno’.
L’ultimo giorno lì abbiamo fatto una specie di festa d’addio, e gridavamo a Muhammad: 'Metti la musica! Yalla, festa!'. L’ultima notte ci hanno messi dentro un tunnel. Ero con altri, eravamo otto ostaggi, e ci hanno spinti, cinque di noi, dentro uno spazio minuscolo, uno accanto all’altro. E poi scopro che lì c’è Bar Kuperstein. All’inizio, giuro, era difficile riconoscerlo. Era diventato pallido, diverso, il viso cambiato. Dico: 'Bar, sei tu?'. Incredibile. Non sapevo fosse stato catturato. Lo conoscevo dal lavoro. Mi dice: 'Senti, non ti capisco. Hai un accento arabo, ci sono tante parole che non sai più dire in ebraico’. Sì. Così abbiamo passato tutta la notte lì nel tunnel ad allenarmi, a riprendere la lingua. È stato un momento raro per me. Tutti insieme, tutti gli israeliani, a raccontarci storie. C’erano anche alcuni di Hamas che erano...tranquilli. Non era la Jihad Islamica, erano più rilassati. C’era un’atmosfera di fine. Il film era finito. Eravamo vivi. Tutto qui. Il film è finito. Tutto bene. No, il vero eroe non sono io. Gli eroi sono i nostri soldati, quelli che sono entrati e hanno rovesciato tutta Gaza per tirarmi fuori. Io vi saluto. Vi amo. Siete la mia ispirazione. Siete la mia redenzione. Sai, quando ti siedi qui e metti i tefillin sotto il cielo... è oro. Vale tutto. È valsa la pena per questi due anni. Non è scontato poter sedersi qui sotto il cielo. Mi dicono: 'Cosa ti è rimasto?'. Niente. Raschi solo il fondo. Capisci? Ogni cosa ti travolge. Ieri ho visto il mare dall’alto e ho cominciato a piangere. È difficile fermare le lacrime. Faccio sempre del mio meglio, ma non capisco perché arrivo a un punto in cui non riesco più. Sento una canzone, guardo il mare, e comincio a piangere. Ho detto a mio padre: 'Cavolo, non avrei dovuto passare tutto quello che ho passato. Quale diciannovenne dice: ‘Perché dovevo passare tutto questo?'. Ero la persona più felice del mondo. Lavoravo, organizzavo feste. Ero sempre con gli amici. Sempre risate con mio padre. Abbiamo girato tutto Israele. Penso che non ci sia posto dove non siamo stati. Anche dopo tutto il dolore, dico: ‘Il mio sogno è tornare da mio padre, tornare indietro nel tempo. Tornare al 6 ottobre’. È questo il mio sogno. Che tutto questo non fosse mai accaduto”.
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