C’è una battuta che circola in questi giorni e che la Presidente del Consiglio ha rilanciato con leggerezza: quella sullo sciopero del 12 dicembre, indetto di venerdì, “così si fa il ponte”. È una di quelle frasi che fanno sorridere chi non conosce davvero il mondo del lavoro, ma che feriscono chi nel lavoro ci vive ogni giorno, anche il sabato e la domenica.
Perché dietro quella battuta non c’è solo ironia, c’è un pregiudizio di classe. C’è l’idea che scioperare di venerdì sia un privilegio, come se chi lo fa potesse concedersi un fine settimana lungo. Ma chi lavora nei turni ospedalieri, chi insegna, chi guida un autobus, chi serve ai tavoli o indossa una divisa, non conosce il “weekend lungo”. In Italia milioni di persone lavorano anche di sabato, di domenica e nei festivi. A non farlo, semmai, sono molti di coloro che quella battuta la pronunciano: dirigenti pubblici, funzionari, politici, persone che del lavoro conoscono soltanto la rappresentazione, non la fatica.
Accusare chi sciopera di essere “furbo” o “parassita” è un modo subdolo per svuotare di significato un diritto costituzionale. Lo sciopero è l’unica voce che resta a chi lavora quando le altre sono ignorate. Ridurlo a una scampagnata di tre giorni significa disprezzare quella voce, e insieme l’idea stessa di dignità del lavoro.
C’è poi un dettaglio che rende questa battuta ancora più stonata. Il 12 dicembre non è una data qualsiasi. È il giorno in cui, nel 1969, una bomba fascista esplose nella Banca Nazionale dell’Agricoltura in Piazza Fontana, a Milano. Diciassette morti, ottantotto feriti, e l’inizio della stagione delle stragi. È un giorno che dovrebbe spingere alla memoria, al rispetto, non all’ironia.
Per questo, chi oggi deride lo sciopero non mostra spirito, ma distanza. Distanza da chi lavora, da chi ricorda, da chi ancora crede che il lavoro non sia un privilegio, ma un diritto. E chi quella distanza la chiama “battuta”, dimostra di non capire nemmeno quanto sia grave.