Il mio canale Telegram. Vi troverete le storie che pubblico sulle riviste, qualche "retroscena", le interviste che farò pubblicate in versione integrale, e le descrizioni più approfondite dei luoghi dove andrò: t.me/paolomossetti
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A live performance by the feminist collective Le Nemesiache, titled The Sibyls, filmed in the Solfatara volcanic crater in Pozzuoli, 1977.
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Parlavamo della svolta sempre più politica dell'ADL già qui: gli unici a non esserne accorti sembrano alcuni baroni del giornalismo italiano, che continuano a citare il gruppo come se fosse fonte neutrale:
🚨Una notizia pesantissima, colpevolmente ignorata. L’Anti Defamation League, formalmente una tra le più importanti associazioni statunitensi che lottano contro l'antisemitismo ma da decenni funzionante come aggressiva lobby pro-Israele, è stata dichiarata fonte faziosa e inaffidabile da Wikipedia. Gli editor del sito, a larghissima maggioranza, ha detto che l'ADL non va assolutamente citata negli articoli di Wikipedia sul conflitto Israele-Palestina perché di parte e disonesta. Per capirci, altre fonti generalmente inaffidabili, secondo Wikipedia, sono i media statali russi, Fox News e le recensioni di Amazon. L'ADL è messa in discussione da Wikipedia anche sul tema dell'antisemitismo. Secondo un'inchiesta di @JewishCurrents, la definizione di antisemitismo fornita dall'ADL è talmente vasta da includere praticamente qualsiasi espressione di solidarietà con la resistenza palestinese. È un colpo durissimo per una delle maggiori autorità mondiali sull'odio anti-ebraico e un potentissimo gruppo di pressione pro-Israele. edition.cnn.com/2024/06/19/m…
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L’Anti-Defamation League, da anni un braccio propagandistico di Netanyahu, dopo la vittoria di Mamdani ha creato una hot line per segnalare episodi di antisemitismo. Una provocazione definita da David Axelrod, ex consigliere di Obama, «incendiaria» e «irresponsabile».
Transparency and accountability are critical for democracy, and no elected official should be afraid of it. Why we launched the Mamdani Monitor…
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Peak Kaja Kallas: the double standard, the blind strategy of deterring desertions, and the childish NAFO-style language (“Starting a war and expecting...”, i.e. collective guilt, which applies to Russians but not to Israelis; “traveling in the EU is a privilege...”, etc.).
Starting a war and expecting to move freely in Europe is hard to justify. The EU is tightening visa rules for Russian nationals amid continued drone disruptions and sabotage on European soil. Travelling to the EU is a privilege, not a given.
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Paolo Mossetti retweeted
Who's going to tell him?
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Negli Stati Uniti sono state aperte più indagini federali per presunto antisemitismo nei campus ultimi due mesi del 2023 che nei vent’anni precedenti. Secondo una indagine accademica ripresa dal Guardian, la stragrande maggioranza dei procedimenti avviati riguardano critiche a Israele o al sionismo più che episodi di odio antiebraico in senso stretto. Quel che è peggio, molte denunce sono anonime e senza prove o provengono da gruppi esplicitamente pro-Netanyahu. Il paradosso del nostro tempo: alcune le leggi approvate negli anni Sessanta per combattere la discriminazione sono state usate, prima con Biden e poi con particolare violenza da Trump, come leve per limitare la libertà d'espressione e minacciare i finanziamenti pubblici delle università. Ma la cosa più interessante è che il "wokismo di destra" usa lo stesso modus operandi di quello "di sinistra": trattare opinioni politiche discutibili ma legittime come se fossero discriminazione. Spostare, cioè, la discussione su un piano "tecnico" affinché intervenga un Leviatano a reprimerla. Con la differenza non trascurabile che questa forma di cancel culture trova agganci istituzionali di primo livello, che ne approfittano per imporre un indirizzo geopolitico autoritario, nonostante l'opposizione sempre più forte dell'opinione pubblica. L'antisemitismo nei campus esiste, ma al giornalismo libero spetta domandarsi come esso venga misurato, in questa fase storica.
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La vittoria di Mamdani è anche quella del cosmopolitismo politico di Anthony Bourdain, che con prosa hemingwayana raccontò ai millennial le cucine della New York celebrata dai ricchi, tra ritmi massacranti, immigrati irregolari e formidabili reietti. Ne ho scritto anni fa:
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Paolo Mossetti retweeted
For heaven's sake - even @DefenceHQ - which I think (hope) must know better - is conflating the conscription cycle with the war in Ukraine. Yes, some conscripts volunteer or are coerced to fight in the war, but this is not in any way 'increasing the scale' of the war
Russia’s illegal war against Ukraine is increasing in scale, as Putin drafts more ordinary Russians into its military. #StandWithUkraine
Paolo Mossetti retweeted
Imperdibile conferenza stampa in Donbass di Gianfranco Vestuto, ex MSI e Lega Sud, per certificare la correttezza del referendum. Pagherei ORO per passare un giorno con la comitiva di 13 «osservatori» italiani finiti nell'Ucraina occupata, tutti diversamente «eretici».
Parlavamo dello stesso argomento qui, qualche settimana fa (e continueremo a parlarne):
La rivista MicroMega mesi fa si chiedeva perché la mobilitazione dal basso sia più fredda con l'Ucraina che con la Palestina. Una risposta indiretta arriva da Cecilia Sala: «Kiev ha veri alleati, riceve armi e sostegno economico. I palestinesi invece hanno simpatia popolare, ma nessun governo pronto a difenderli davvero...». E poi aggiunge: «Dal 7 ottobre Israele non fa entrare nessun giornalista internazionale. Questo significa che le immagini e i racconti che arrivano da lì sono solo di reporter locali, che Israele delegittima definendoli simpatizzanti di Hamas. Così anche davanti a filmati con montagne di cadaveri di bambini, la narrazione ufficiale può dire: “è falso”... La sinistra in Israele si è estinta» (Dal festival di Open).
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«Personalmente credo che il principale ostacolo allo sviluppo di un discorso di sinistra sull’Ucraina sia che la guerra si è trasformata molto rapidamente in un progetto delle élite occidentali. Sia i governi che i media si sono schierati in larga parte a favore di Kyiv, mentre Stati Uniti e Unione Europea hanno fornito un livello di sostegno economico e militare senza precedenti. Questo aiuto è stato avvolto in un linguaggio morale ed etico che, per molti esponenti della sinistra, ha avuto il sapore dell’ipocrisia e del doppio standard. Le voci ucraine ascoltate in Occidente (che non rappresentano affatto l’intero spettro di opinioni del paese) tendono a descrivere il conflitto soprattutto come una guerra di liberazione nazionale: per la lingua e la cultura, ma anche per costruire una società ancora più liberalista e capitalista, integrata nei mercati internazionali e aperta agli investimenti stranieri - una sorta di “Singapore sul Dnipro”, come alcuni ucraini l’hanno definita. Sebbene alcuni ucraini abbiano cercato di presentare la loro lotta come anti-imperiale, la sinistra occidentale ha trovato difficile empatizzare con una causa i cui rappresentanti ufficiali si sono allineati con altre potenze imperiali, e che spesso hanno negato la solidarietà ad altre guerre di liberazione — la questione spinosa del conflitto di Gaza si è rivelata troppo difficile da gestire per il cerchio di Zelensky. Sotto questo aspetto, la guerra in Ucraina è essenzialmente una guerra tardo-capitalista: un conflitto combattuto entro i vincoli della globalizzazione, dove i meccanismi di mercato determinano chi riceve nuovi reclute e droni. È anche una guerra condotta in nome di valori liberali, se non neoliberali - un fatto che aiuta a spiegare perché le manifestazioni di solidarietà internazionalista, di classe e di sinistra siano state, purtroppo, rare e frammentarie». (Un @DM_Deluca su cui fermarsi un attimo a riflettere, in una storia che vi consiglio. Traduzione mia.)
Il Consiglio norvegese per la pace, che racchiude decine delle più importanti sigle pacifiste del Paese, ha cancellato la tradizionale fiaccolata per celebrare il premio Nobel per la Pace, per protesta contro l’assegnazione dell’onorificenza a Machado. Il motivo è che lei sembra sempre più l'antitesi del riconoscimento che ha ricevuto. Qualche giorno fa, in un'intervista con Bloomberg, non solo invita esplicitamente Trump all'escalation con Maduro, non solo accusa il Venezuela di aver manipolato le elezioni statunitensi (facendo vincere Biden) ma anche di dare protezione ad Hezbollah e Hamas. È evidente che si tratta di dogwhistle per rivolgersi non tanto alla diaspora venezuelana della Florida - tradizionalmente pro-Trump - quanto ai falchi repubblicani pro-Netanyahu. Idee legittime, ma appartenenti alla più classica destra radicale latinoamericana. Cosa ci ricava il centrosinistra italiano ed europeo da tutto ciò?
"I have no doubt that Nicolás Maduro...and many others are the masterminds of a system that has rigged elections in many countries, including the US." Venezuelan opposition leader María Corina Machado
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In un clima di Grande Restaurazione, con corporazioni che attribuiscono agli outsider la colpa di ogni crisi, propagandisti che si spacciano per neutrali o tecnici e vogliono decidere chi deve andare in TV, non dimentichiamo i famosi rapporti di forza esistenti. Bravo Matteo.
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Addendum: lo storico Joshua Freeman, che ho intervistato non ricordo più per quale blog o rivista (non ritrovo l'articolo) nel 2014 ha scritto questo strepitoso pezzo per @jacobin in cui spiega quelle che sarebbero state le radici della vittoria di Mamdani: la risoluzione della crisi fiscale di NY degli anni Settanta che funge da modello per tutto il reaganismo e il thatcherismo da lì da venire: l'uso della bancarotta come leva finanziaria per sconquassare equilibri politici, rimpiazzare fette di territorio ingestibili e improduttive con altre capaci di sostenere, con la loro sfrontata ricchezza, l'intera baracca fiscale cittadina. Da qui la trasformazione di megapoli come Londra e la stessa NY in vere e proprie Dubai fluviali, con qualche sacca isolata di resistenza culturale e politica: tollerata per decenni finché rimane nei confini del soft power democratico più innocuo: jacobin.com/2014/10/if-you-c…
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Vedere migliaia di operai italoamericani e afroamericani sfilare insieme per le strade di Harlem con gli “Giù le mani dall’Etiopia” e “Morte al fascismo” non era una cosa da tutti i giorni. Socialisti e comunisti, comunità etniche che vivevano fianco a fianco, ma spesso restavano separate dalla religione e dalla politica (o dall'avversione per la politica) si ritrovarono unite contro la guerra coloniale di Mussolini. A Boston si ripeté la stessa scena. Le cronache del New York Times parlarono di 75 mila partecipanti. Per molti militanti di lungo corso fu la prova che gli italoamericani non erano votati, per cultura o formazione, all'indifferenza e al familismo, ma potevano schierarsi con i popoli colonizzati.
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Il Partito Comunista statunitense negli anni Trenta, prima che l'Unione Sovietica si affermasse come rivale sistemico per Washington, era al massimo fulgore della sua storia, e uno dei più grandi organizzatori di rivolte anti-KKK in Alabama. Difficilmente, però, operava sotto il suo vero nome. Per sfuggire alla repressione e al pregiudizio, Marcantonio e tanti altri socialisti si disperdevano ufficialmente in una miriade di associazioni e altri partiti. Una delle poche occasioni in cui i comunisti statunitensi uscirono allo scoperto col proprio nome, e non clandestinamente, fu il 1935, quando l’Italia fascista invadeva l’Etiopia. In quell'occasione, il Communist Party comunista riuscì a mobilitare a New York una delle più grandi manifestazioni antimilitariste dell’epoca. Gli organizzatori italoamericani erano in prima fila. Marcantonio pure.
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In uno dei suoi ultimi post pubblicati prima delle elezioni, e forse quello simbolicamente più importante, Zohran Mamdani ha dedicato un omaggio commosso a Vito Marcantonio. Figlio di immigrati lucani, Marcantonio era un deputato di East Harlem e, insieme a Carlo Tresca, uno dei due esponenti più celebri del radicalismo di sinistra italoamericano del primo Novecento. Comunista dichiarato, entrò in Congresso sotto le insegne del Partito laburista statunitense, oggi defunto. Una figura a lungo relegata nelle nicchie accademiche, e ai tempi in cui lavoravo a New York (parliamo di dieci anni fa) giaceva nelle catacombe polverose e nei dibattiti con quattro partecipanti, incluso lo speaker, di qualche libreria indipendente di Brooklyn. Del resto il ruolo degli italoamericani nel radicalismo di sinistra è stato trascurato negli studi accademici fino agli anni Settanta: una omissione che deriva, tra le altre cose, dal pregiudizio dell’“amoral familism”, secondo cui i meridionali sarebbero incapaci di azione collettiva. Qui due bei saggi che mi è capitato di comprare in una di quelle librerie, quando facevo il giornalista negli uffici Wall Street, ma vivevo proprio a East harlem:
UNTIL IT’S DONE, Ep. 5: Vito Marcantonio There are many who dismiss our vision for New York as impossible. To them, I say we need look only to our past for proof of how we can shape the future. Tomorrow is Election Day. And this is the final Until It's Done of our campaign.
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