Il gelo umano del potere
Non è un fotomontaggio, non è una messa in scena. È successo davvero. Un funzionario si accascia al suolo, improvvisamente, durante una conferenza alla Casa Bianca. Attorno a lui le persone si muovono, chiamano aiuto, cercano di soccorrerlo. E poi c’è lui, Donald Trump, fermo dietro la scrivania, lo sguardo fisso nella camera, il volto impassibile, le mani lungo i fianchi. Immobile, come se nulla fosse accaduto.
Non un passo verso l’uomo a terra. Non un gesto, una parola, un minimo cenno di umanità. È come se quel corpo riverso davanti a lui non fosse una persona ma un elemento di disturbo, un oggetto che rovinava la perfezione della scena. L’immagine è raccapricciante, e non per la caduta del funzionario, ma per la freddezza di chi assiste senza battere ciglio.
Chiunque, di fronte a un evento simile, avrebbe un riflesso immediato: ci si sporge, si chiede se serve aiuto, si prova almeno una forma istintiva di partecipazione. È un impulso automatico, radicato nella natura umana. Ma in Trump no. In lui, come hanno spiegato diversi psicologi che hanno analizzato la sua personalità, quel circuito empatico sembra spezzato.
Molti specialisti hanno descritto la sua condotta come quella di un uomo con tratti marcati di disturbo narcisistico di personalità: bisogno costante di ammirazione, incapacità di accettare la fragilità, ossessione per il controllo dell’immagine. Per un individuo con questa struttura, l’altro non esiste davvero, se non come specchio o minaccia. La sofferenza altrui non suscita compassione, ma fastidio, perché obbliga a confrontarsi con ciò che il narcisista teme di più: la vulnerabilità, la perdita di dominio.
Quella postura immobile davanti a un uomo che crolla è quindi un gesto perfettamente coerente con il suo copione psicologico. Non è apatia, è difesa. È la necessità di mantenere intatta l’immagine del leader invincibile, anche quando la realtà mostra quanto sia umanamente vuoto quel ruolo.
In quella stanza colma di bandiere, fotografie e simboli di potere, l’unica cosa che manca è la compassione. Trump resta immobile non perché non capisca cosa accade, ma perché non può permettersi di sentirlo. In quel momento, più che un presidente, appare un uomo prigioniero del proprio ego.
Ed è questo che disgusta: non il freddo calcolo politico, ma l’assenza totale di un riflesso umano. Davanti a un corpo che cade, Trump pensa solo a non uscire male in foto. E in quell’attimo, più di ogni discorso, si rivela per ciò che è davvero: un uomo incapace di provare empatia, chiuso nella corazza del proprio narcisismo, pronto a sacrificare persino l’umanità pur di restare al centro dell’inquadratura.